
ARSENIO SIANI
QUELLO CHE LE DONNE NON DICONO
IL LIBRO
Ho trascorso la mia infanzia in una realtà difficile. Un piccolo paese del Sud Italia dove il caldo era asfissiante d’estate, il mare lontano chilometri e il ristoro più grande che si potesse sperare, era rappresentato dalle pale di un ventilatore arrugginito e sgangherato. Vivevamo all’ultimo piano di una piccola palazzina circondata da strutture più imponenti e massicce, palazzi a dieci piani e la facciata della Chiesa di quartiere che circondavano e asfissiavano quel microcosmo di sei famiglie. Strutture alte quanto bastava ad ostruire il passaggio del vento che avrebbe permesso un po’ di refrigerio ma non sufficientemente grandi da fare ombra contro i raggi solari nelle ore più calde del giorno. Il tetto era ricoperto di catrame che, diventando incandescente a causa della calura estiva, rendeva un effetto termosifone riscaldando la casa anche durante la notte. Capitava anche che facessi due docce gelate a notte pur di procurarmi un po’ di ristoro da quell’insopportabile arsura. Guardavo dalla finestra e sognavo il mare, la piccola vasca dei pesciolini rossi nel giardino diventava ai miei occhi uno sterminato oceano, in quella pozzanghera potevo vivere miriadi di avventure rocambolesche in terre e acque lontane, forse anche in altri mondi, pianeti in cui i mari erano ancora più grandi, popolati da creature bizzarre o mostruose, pesci mutanti dal volto umano che potevano anche parlare, comunicare, forse provare sentimenti ed emozioni. Avevo un walkman. Infilavo le cuffie sulle orecchie, schiacciavo il tasto play e ascoltavo la musica. Lo sguardo vagava in quei pochi centimetri d’acqua, studiavo il percorso dei pesci rossi mentre la musica dei Queen o di Michael Jackson mi accompagnava in quel viaggio. Il mondo reale rimaneva isolato fuori da me, per ore, con le sue bruttezze, le scene paurose a cui avrei potuto assistere, le urla che avrei potuto udire. Quella realtà brutale e violenta rimaneva estranea, aliena, non mi rappresentava e io non gli appartenevo. Perché io non ero lì. Non c’ero quando il vicino urlava contro sua moglie e le sue due figlie di poco più grandi di me. Ululati disumani che erano preludio a tonfi sordi e secchi, poi i pianti. Le urla disperate. Le grida di dolore. Le pareti che tremavano. Ed io speravo che ciò che era stato scaraventato contro il muro non fosse qualcosa che respirasse, che potesse provare dolore. Ero amico di Luciana e Sofia. O almeno pensavo di esserlo. Le vedevo uscire di casa dopo le botte, col volto gonfio per il pianto, a volte dei lividi tremendi sulle braccia o sul volto, a testimoniare che loro padre non aveva fatto differenze, malmenando nei suoi attimi di feroce follia sia la moglie che le figlie, indiscriminatamente. Quando provavo a chiedere qualcosa, mi rispondevano in malo modo dicendomi di farmi gli affari miei.
In seguito venivo rimproverato anche dai miei genitori che ribadivano il concetto: non ficcare il naso in faccende che non ti riguardano.
Non capivano che invece la cosa mi riguardava, quando sei un bambino sensibile tendi a sentire sulla tua pelle il dolore altrui. Diventi un recettore e catalizzatore di stati d’animo, ti carichi sulle spalle il peso della sofferenza del mondo e quel dolore diventa più grande quanto più cresce la consapevolezza del-l’impotenza della tua condizione di bambino. Ti senti inutile, debole, ti fai mille domande e quelle che fanno più male, attraversando il tuo essere come delle lame sono: “perché gli adulti non fanno niente? E perché Luciana, Sofia e loro madre sopportano in silenzio? Perché non scappano o denunciano chi fa loro del male?” …
L'AUTORE