
CALABRIA TESTIMONE DI BATTAGLIA - Autori: l’Ingegnere Antonio Comito per la Battaglia della Colonna, il Generale Nazzareno Lo Riggio per la Battaglia di Seminara, il Generale Salvatore Moschella per la Battaglia di Maida e il Dottor Nando Castagna per l’Operazione Ferdy.
Formato 14,8 x 21 - Copertina a colori - Pagine 136
Se D’Aubigny invece di… avesse...? E se Montgomery anziché…avesse…? Se pure il generale Jean Reynier nella piana di Maida...avesse…? Sono tutti interrogativi che eccitano la nostra fantasia e ci fanno immaginare sviluppi diversi delle vicende umane di quei personaggi e dei popoli in nome dei quali essi agivano. Ma, appunto: si tratta di un puro esercizio di fantasia, che non può avere posto nella Storia, né interesse reale all’approfondimento. La Storia è altro, ad altro serve. Specie a distanza di tempo, lo storico, studioso o appassionato, consultando e analizzando le fonti a disposizione, può arrivare a comprendere per quali ragioni una battaglia ha avuto un certo esito e determinate conseguenze, ma non può seguire ipotesi alternative, nemmeno se queste erano a un certo momento effettivamente disponibili agli attori coinvolti e poi, per svariate circostanze, non si concretizzarono nello sviluppo reale dei fatti.
Nelle pagine che seguono ci troveremo a leggere la narrazione viva e puntuale di quattro battaglie avvenute in epoche molto diverse (nel 982 poco a nord di Reggio Calabria, tra il 1495 e il 1503 a Seminara, nel 1806 a Maida, nel 1943 a Pizzo), combattute con gli armamenti e le convinzioni tattiche dell’epoca da eserciti stranieri sul suolo della nostra regione.
Le prime due ebbero conseguenze importanti e influenzarono pesantemente la nostra storia di calabresi e di meridionali, le altre, soprattutto quella di Maida, all’interno di strategie di guerra più ampie, determinarono lo sviluppo di tecniche di combattimento innovative.
Una caratteristica accomuna le quattro battaglie: l’assenza costante dei calabresi, che non hanno parte attiva negli scontri. Talvolta ne rimangono vittime sulla scena immediata, come bene evidenziato nel racconto della “Operazione Ferdy”. Sempre e comunque sono le vittime dopo la conclusione della battaglia.
La Calabria e l’Italia intera sono il teatro delle guerre altrui e costituiscono la preda che va ad accrescere i possedimenti di altri regni e popoli, capaci di comporsi in unità nazionali secoli prima di noi. L’assenza calabrese è ancora meno spiegabile quando osserviamo l’indifferenza, se non l’ostilità, al tentativo di Gioacchino Murat di riprendersi il regno di Napoli e in prospettiva di ritentare l’unificazione d’Italia, sbarcando proprio a Pizzo nel 1815. Lungi dall’insorgere contro i Borbone, i popolani collaborarono con le guardie durante la scaramuccia che precedette la cattura dell’ex re e dei suoi compagni d’avventura.
Né ebbero migliore sorte nel 1844 i fratelli Bandiera, che pure arrivavano pensando di rinfocolare l’insurrezione avvenuta un paio di mesi prima a Cosenza. Anche per loro indifferenza e ostilità. Ricordiamo che faceva parte del manipolo sbarcato con loro un calabrese di S. Giovanni in Fiore: Giuseppe Meluso.
È interessante e doveroso soffermarsi sulla cosiddetta “battaglia della Colonna”, combattuta nel 982 poco a Nord di Reggio Calabria, tra Ottone II di Sassonia, imperatore del Sacro Romano Impero, e l’emiro di Sicilia Abū al-Qāsim ʿAlī Fu una battaglia importantissima, dalle conseguenze rilevanti per l’Italia e per l’Europa, stranamente non entrata nel novero di quelle decisive.
Per quello che ci riguarda più direttamente, ne derivarono un prolungamento di oltre cento anni dell’occupazione araba della Sicilia e un incremento delle incursioni sulle coste calabresi e pugliesi. Ciò contribuì all’ulteriore abbandono delle coste da parte dei calabresi e al loro arroccarsi e isolarsi in singoli paesi collinari. Questi, incapaci di difendersi insieme contro le incursioni, al massimo erano in grado di annunciare l’arrivo del nemico mediante segnalazioni.
Probabilmente tale chiudersi in sé delle piccole comunità è il germe della successiva mancanza di un sentimento di appartenenza più larga. Studi più approfonditi e competenti potranno spiegare questo lato in apparenza totalmente negativo della nostra popolazione, per di più affiancato da fatale rassegnazione e compiaciuto vittimismo.
Trascorsi cinquecento anni, le battaglie di Seminara, dettagliatamente descritte nel capitolo dedicato, determinarono due secoli di dominazione spagnola della nostra regione e di gran parte d’Italia.
I Viceré spagnoli esercitavano un potere assoluto e governavano al solo scopo di inviare quanta più ricchezza possibile alla madrepatria per alimentarne le guerre di conquista. Sosteneva il loro potere un piccolo esercito bene armato e crudelmente efficace, mentre sulla popolazione vigilava un’efficiente polizia, da cui dipendevano centinaia di spie e informatori.
É emblematico che nel nostro dialetto si usi “Spagnarsi” per dire “avere paura”. Studi etimologici seri non hanno trovato per questo vocabolo radici attendibili diverse da quelle storiche.
Altri guasti furono causati dalla dominazione spagnola: attirati dalla corte spagnolesca di Napoli, i baroni si trasferivano dalle campagne nella capitale. Le campagne, già poco produttive, venivano lasciate in mano a fattori che inasprivano la tassazione e lo sfruttamento dei contadini e si servivano di propri dipendenti per il loro controllo. Forse fu quella l’origine della mafia.
Scrive Indro Montanelli nella sua “Storia d’Italia”, riferendosi a Napoli di quel periodo:
“…la riottosità e spavalderia di questi nobilucci di campagna, l’insolente fasto di cui facevano sfoggio, l’ostentato disprezzo per ogni genere di lavoro furono all’origine di un costume e di una mentalità che purtroppo si sono perpetuati fino ai giorni nostri. Non meno corrotta e socialmente quasi altrettanto inutile era la borghesia, formata da speculatori e avvocati. I primi appaltavano gabelle, gestivano banche, costruivano palazzi, esportavano frumento, importavano manufatti. Molti erano forestieri, soprattutto genovesi e fiorentini. I secondi in maggioranza indigeni. Il loro numero era enorme, ma bastavano appena al fabbisogno della capitale, i cui passatempi preferiti erano già allora le contese giudiziarie. Data da quei tempi...la formazione del meridionale leguleio, faccendiere, imbroglione, esperto di cavilli e del magistrato formalista che allo scrupolo del codice sacrifica quello della giustizia.”
Prese corpo in quell’epoca e si diffuse tristemente in tutta Italia il detto popolare: “Franza o Spagna, purché se magna”.
Attribuito senza certezza a Francesco Guicciardini, forse da avversari politici o letterari in malafede, ebbe larga e duratura diffusione a rappresentare l’indifferenza e l’ignavia di un’intera popolazione, tesa esclusivamente alla soddisfazione di bisogni egoistici primari, cinicamente indifferente a tutto il resto. Rappresenta malevolmente un popolo incapace di sentirsi tale, pronto a qualsiasi voltafaccia che gli consenta una pura sopravvivenza. Politicamente è la giustificazione dei ripetuti cambi di alleanza dei vari stati in continua lotta fra loro e pronti a chiedere o offrire aiuto al potente straniero di turno, spagnolo o francese che fosse.
Eppure il valore militare italiano era già evidente in quello stesso secolo. Basti pensare all’eroismo di Marco Antonio Bragadin e dei veneziani a Famagosta contro i Turchi, a Ettore Fieramosca e ai suoi compagni d’armi nella disfida di Barletta, al generale Alessandro Farnese conquistatore delle Fiandre per conto della Spagna, a Gianandrea Doria e Agostino Barbarigo, comandanti di due delle quattro flotte cristiane nella battaglia di Lepanto.
Anche senza la coscienza di un popolo unito, affiorava la tensione ideale delle avanguardie, destinata a tramandare ai posteri la luce di una stirpe assopita, ma non trapassata.
Antonio Comito